Alessandro all’IRONMAN di Tallin

“Sentiti serenamente libero di farci qualcosa se vuoi o anche di non farci assolutamente nulla.
L’effetto terapeutico di sfogare la mia frustrazione interna, forse, l’ho raggiunto.
Va già più che bene così
”.

Finisce così il racconto che Alessandro Gattamorta ci ha mandato, dopo il suo Ironman di Tallin.
Finito male.

Alessandro è uno dei nostri atleti migliori, anima e animatore da quasi 2 anni del nostro gruppo age, fatto di amatori, appassionati, irriducibili, ma pur sempre non professionisti.

Finita la gara, ci sentiamo via whatsapp. “Come stai?” “Come ti senti?” “Cosa pensi?”… la perfetta sequenza di domande banali. Ma cosa puoi domandare a un amico che si è allenato duramente, 2 volte al giorno, per giunta in un periodo come questo, così particolare e difficile?

Penso: e se provassi a chiedergli di mettere giù un racconto, uno “storytelling” come si dice oggi, su come sono andate le cose. Che magari possa diventare un piccolo “caso studio” anche per altri atleti. “Boh, non so. Però ci penso”.

Qualche giorno dopo arriva questo piccolo resoconto.

Ritirarsi durante una gara di endurance è un fallimento? Si, certo, ritirarsi è un terribile fallimento che comporta giorni, settimane di sospiri e rimuginamenti, ma, come ogni fallimento, credo porti con se anche grandi insegnamenti che devono essere identificati, compresi e metabolizzati.

Una delle caratteristiche principali degli sport di endurance è che ti portano a ricercare i tuoi limiti e a importi obiettivi sempre più ambiziosi, sia in termini di distanza raggiunta che di tempo impiegato.

In entrambi i casi, stiamo cercando di “infrangere un muro”.

E per raggiungere questo tipo di obiettivi occorrono impegno e dedizione nelle fasi di allenamento antecedenti la competizione ed esperienza e, perché no, un pizzico di fortuna, durante.

Sabato scorso a Ironman Tallinn ho, per la seconda volta consecutiva, fallito il mio obiettivo e il muro è rimasto nuovamente illeso. Meglio per lui.

Non mi ero allenato sufficientemente bene? Assolutamente no, avevo diligentemente seguito le tabelle di coach Daniel (Fontana, ndr) e svolto tutti i lavori che hanno accompagnato il mio lungo percorso di avvicinamento a questa esperienza.

Non ero determinato nel raggiungere l’obiettivo? Beh, non si va a duemila chilometri da casa in periodo di Covid, senza avere intenzioni serie.

Qual è stato allora il motivo di questo nuovo fallimento? L’esperienza, ebbene sì – nonostante una ventina di Maratone portate a casa con successo e un personale di 2h58m, altrettanti mezzi Ironman (70.3) con due qualificazioni per i Campionati Mondiali di specialità conquistate nel 2019 e tre Ironman full distance (140.6) completati con un personale di 10h31m raggiunto nel 2018 – pare che sia la prima ragione del mio fallimento. Purtroppo credo proprio come si sia trattato di un errore di inesperienza.

Devastato da tre attacchi di dissenteria in meno di sette chilometri (fra il 13simo ed il 20simo) mentre correvo la maratona, quando, per l’ennesima volta, sono uscito dal bagno, la mia testa si è arresa, le gambe non erano più in grado di correre e il muro si ergeva imperterrito alto, forte ed impenetrabile di fronte a me.

Ma come? Tre attacchi di dissenteria in meno di sette chilometri? Ma non prendi l’Imodium prima di partire? Imodium? Ehm, ehm, eh no, ahimè no, ma soprattutto, alla veneranda età di 52 anni, non l’ho mai preso in tutta la mia vita e non pensavo nemmeno che potesse avere senso prenderlo prima di una competizione sportiva.

Porto così umilmente a casa questa nuova esperienza, elaborandola e facendola mia, ovviamente dispiaciuto di non averla appresa prima, sereno per aver ascoltato il mio corpo (perché la storia di arrivare in fondo a tutti i costi, secondo me, è una gran cagata), fiducioso che la prossima volta andrà meglio e che, comunque, continuando ad allenarmi con passione e impegno, prima o poi, arriverà la gara in cui, senza alibi, mi potrò confrontare solo con me stesso e dimostrarmi che ce la posso fare.

Queste parole di Alessandro, mi fanno riscoprire il potere taumaturgico della scrittura. Tempi moderni, questi, di nuovi media, nuove tecnologie. Ma, se ci pensate, scrittura, fotografia, restano i linguaggi chiave. Capaci di emozionare, se maneggiati con abilità. Una parola, al posto giusto, racconta tutto. Lascia spazio all’immedesimazione. Chiudo il computer pensando che alla fine, dipende sempre tutto da noi. Non ci sono media negativi, esistono semmai scrittori e fotografi, non capaci.

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